15 lug 2016

a cosa servono le donne nella scuola italiana? (di marcella farioli)

La pessima riforma della scuola, trionfalmente varata da Renzi dopo anni di retorica sulla meritocrazia e contro ‘il falso egualitarismo della sinistra’, porta a termine un processo di smantellamento dell’istruzione pubblica iniziato negli anni ’80 e promosso in egual misura dal centro destra e dal centro sinistra. Obbedendo ai dettami della tavola rotonda dei confindustriali europei (ERT) – veri registi occulti dell’operazione insieme a enti privati come l’associazione TreEllle, la Fondazione Agnelli e altre emanazioni dell’imprenditoria italiana – sono state progressivamente introdotte nel sistema pubblico innumerevoli strutture utili a snaturare la scuola come organismo orizzontale e, almeno in teoria, livellatore delle differenze sociali: sdoganamento di lessico e modelli aziendali, gerarchizzazione degli insegnanti, sbilanciamento nella distribuzione dei poteri in senso verticistico, aumento del divario tra le scuole di serie A, con utenza altoborghese e benestante, e le scuole di serie B, in cui viene confinata la popolazione di bassa estrazione sociale.

Certo la scuola pubblica italiana non era esente dal classismo nemmeno prima della riforma Renzi: da sempre essa ha funzionato come dispositivo utile a riprodurre cittadini integrati e sottomessi all’autorità e lavoratori docili e acritici, a trasmettere come ‘neutri’ i valori dominanti, a selezionare per gli studenti diversi percorsi di studio a seconda della loro provenienza sociale. Al giorno d’oggi in Italia – e la ‘cattiva scuola’ renziana è destinata ad aggravare il fenomeno – il rapporto tra classe sociale dello studente, indirizzo di studi prescelto e successo scolastico è pressoché deterministico: i privilegi o gli svantaggi della famiglia d’origine vengono trasmessi ai figli sotto forma di modelli di condotta e codice linguistico, e ne orientano le scelte scolastiche e il futuro lavorativo. La famiglia rende soggettive le differenze oggettive trasformando le diseguaglianze socio-economiche in diseguaglianze cognitive e culturali; la scuola a sua volta, invece di sanare lo squilibrio, lo legittima, attribuendo il successo o l’insuccesso esclusivamente alla presenza o all’assenza negli individui di doti innate o di merito.

I contenuti e le modalità didattiche, che sono un arbitrario culturale, vengono proposti e avvertiti come forme di sapere universali, consacrate dall’uso o dalla loro congruenza con lo Zeitgeist e con gli interessi materiali delle classi egemoni: la “neutralità” attribuita all’insegnante modello, non è altro che una unilateralità fittizia, che consiste nel non proporre mai valori difformi da quelli dominanti, dissimulando la funzione politica assolta dal sistema scolastico.
In questo modello di scuola in Italia e, in percentuali solo lievemente inferiori anche nel resto d’Europa, il personale docente è rappresentato per la maggior parte da donne. Nel nostro paese le insegnanti rappresentano il 78% del corpo docente. Una percentuale che sale fino a quasi il 100% nelle scuole dell’infanzia (fino alla legge 903 del 1977 era addirittura vietato agli uomini insegnarvi), al 95% nella scuola primaria e all’85% nella scuola secondaria di primo grado. Alle superiori le donne costituiscono il 59% del totale, con punte dell’85% nei licei pedagogici, a riprova del fatto che l’educazione è ritenuta un campo prettamente femminile. Il numero di donne diminuisce bruscamente con l’aumentare del livello stipendiale e del prestigio sociale del grado di istruzione: nell’università italiana le ricercatrici sono il 35% del totale, solo il 20% le ordinarie. Le donne che nel 2013 ricoprivano il ruolo di rettore erano 5 su 78 secondo i dati del Miur.

Esiste un rapporto tra la funzione ideologica e disciplinatrice della scuola e la sua progressiva femminilizzazione negli ultimi cinquant’anni in Italia?

La risposta è senza dubbio affermativa.

Le ragioni del fenomeno sono molteplici e, ahimè, ben poco edificanti. Prima di tutto, l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria è assimilato nella mentalità corrente al lavoro di cura, prerogativa ‘innata’ femminile e comparabile ad altri lavori a carattere oblativo e caritatevole, come quello di infermiera o operatrice dei servizi sociali. Poiché le donne sono ritenute naturaliter pazienti e inclini alla dolcezza, la ‘cura’ dei bambini spetta a loro anche a scuola come prolungamento del ruolo materno. Tale visione è legata al ruolo della donna nella famiglia: una ‘natura’ materna, dedita al lavoro domestico e di riproduzione gratuito, subordinata a un ordine maschile che non necessita di legittimarsi, ma a sua volta soggetto di dominazione sui figli, cui trasmette valori congruenti con il loro futuro ruolo di sottoposti all’ordine sociale.

Questo radicato stereotipo culturale, insieme al basso livello salariale dei docenti della scuola dell’infanzia e primaria – troppo scarso per costituire il salario principale della famiglia italiana – contribuisce fin dalle origini a rendere in esse ultraminoritaria la presenza maschile, oltre a favorire i conti dello stato: la legge Casati del 1860, infatti, che stabilì il nuovo assetto della scuola pubblica nell’Italia post-unitaria, prevedeva che lo stipendio delle maestre fosse inferiore di un terzo rispetto a quello dei maestri. L’effetto psicologico che ancor oggi deriva dalla quasi totale femminilizzazione della primaria è evidente: man mano che cresce e accede ai livelli superiori di scuola, lo studente viene messo di fronte al fatto che più il contenuto culturale della scuola si ‘eleva’ e si specializza, più esso è affidato a maschi. Gli uomini vengono dunque percepiti come portatori di una sapienza più ‘alta’, col risultato di svalorizzare ulterirmente il ruolo femminile nell’istruzione.

Alla percezione dell’insegnamento come prolungamento del ruolo materno non è estraneo il ruolo giocato dalla Chiesa, che fino alla legge Casati mantenne l’egemonia nell’educazione. La visione inferiorizzante della donna propria della Chiesa e le sue idee sulle differenze complementari tra i sessi colgono appieno le potenzialità della figura della maestra disciplinatrice di coscienze infantili come prosecuzione del ruolo della brava madre cattolica; già nell’Ottocento, del resto, la scelta di assumere maestre nella scuola elementare era avallata dall’idea che le donne fossero le custodi più affidabili della morale cristiana.
Il massiccio ingresso femminile nell’istruzione media e superiore, anche come allieve, comincia a partire dagli anni Sessanta ed esplode negli anni Settanta, quando un numero crescente di donne si iscrive a facoltà, come Lettere o Lingue, che sfociano naturalmente nell’insegnamento. Parlare di scelta nel senso pieno del termine è inesatto: i meccanismi che orientavano e orientano le studentesse verso queste facoltà sono legati a una definizione sociale delle qualità ‘femminili’ che certi studi contribuiscono a forgiare, al pregiudizio secondo cui esiste un’affinità elettiva tra le caratteristiche femminili e quelle letterarie, come la sensibilità poetica e alle sfumature del sentimento. Le presunte ‘scelte’ o vocazioni – in questi termini si esprimono molte insegnanti interrogate in proposito – sono spesso vie obbligate che orientano le donne a professioni, come l’insegnamento, che secondo l’opinione comune richiedono qualità ‘femminili’: è difficile non condividere tale conclusione, a meno che non si voglia supporre che la preponderante percentuale di donne iscritte attualmente in Italia alle facoltà di Scienze della formazione (91%), Lingue (80%) o Lettere (70%) sia dovuta a una predisposizione genetica a tali discipline.

Desolante è poi constatare che un altro fattore che ha orientato generazioni di studentesse verso facoltà che sfociano nell’insegnamento risiede nel pregiudizio -ultimamente incrementato dalla scadente retorica sui dipendenti statali fannulloni – che accredita il lavoro docente come una sorta di privilegiato part-time a stipendio pieno. Da ciò la formula ritualmente salmodiata secondo cui “la scuola è il lavoro ideale per le donne che hanno famiglia”, perché “lascia tutto il pomeriggio libero”.

Tale convinzione nasce dall’idea che il tempo di lavoro dei docenti coincida con quello mattutino (in Italia da 24 a 18 ore di lezione frontale a seconda del grado di scuola); il cospicuo impegno collegato alla funzione docente (correzione elaborati, preparazione materiali, approfondimenti, verifiche, aggiornamento, etc.) non viene percepito come tale in quanto variabile nella mole, non sottoposto a orario fisso e collocabile in momenti diversi della giornata, anche serali o notturni. Esso è dunque sempre subordinabile alle esigenze di famiglia. Questo è il punto: proprio in virtù dell’alto grado di flessibilità dell’organizzazione del tempo di lavoro extra-lezioni, la donna che insegna è il soggetto ideale da gravare con il doppio carico del lavoro domestico e di cura, in quanto sfruttabile in diverse fasce orarie per le esigenze dei figli e della famiglia nel suo complesso.

Di conseguenza, il lavoro delle docenti è ricco di tempo ‘libero’ da dedicare alla famiglia, ma singolarmente privo di tempo libero per il progresso intellettuale e il processo di soggettivazione di chi lo svolge. Ciò comporta anche un interesse minore per l’aspetto politico del lavoro scolastico e un’autolimitazione alla sfera del privato a scapito del pubblico e della partecipazione.

Ne deriva un amaro paradosso: il modello dell’insegnamento come professione tipicamente femminile si basa in fondo sulla centralità del ruolo di moglie e di madre cui molte donne hanno cercato di sfuggire inserendosi in una professione che ritenevano idonea ad emanciparsi o persino a liberarsi dalle pastoie del patriarcato. L’enfasi sulla compatibilità dell’insegnamento con il lavoro domestico, inoltre, postula un’assimilazione delle due attività alla luce dell’identica capacità ‘naturale’ che le sorregge, quella di cura dei soggetti in crescita, che conserva – anche nella bassa retribuzione – il carattere di gratuità tipico del lavoro domestico.

Tale analogia spiega la tendenza a organizzare il lavoro scolastico come quello familiare: come “economia del dono”, come lavoro “infinito”, pervasivo, carico di responsabilità non delimitate e flessibile, foriero di frustrazioni assimilabili a quelle vissute in famiglia, a partire da quella derivata dalla dimensione sempre più individuale della didattica e dalla solitudine. Solitudine nello sforzo di conciliare numerose e diverse funzioni, di escogitare soluzioni per i problemi più disparati in assenza di ogni struttura di sostegno; solitudine nel misurarsi con realtà sempre più complesse e nella consapevolezza dello scarto tra le possibilità oblative individuali e lo sgretolamento culturale ed economico dell’istituzione scolastica. Una solitudine e un isolamento che caratterizzano molti lavori tipicamente femminili, a partire da quello tradizionale della casalinga.

Altra ragione della predominanza femminile nella scuola italiana sono i bassi salari: non è un caso che l’Italia sia uno dei paesi europei con la maggior percentuale di donne tra il personale docente della scuola e al contempo quello con i salari più bassi per gli insegnanti, insieme a Grecia e Turchia. Prima dell’attuale crisi economica, la professione docente, anche nella secondaria di secondo grado, garantiva una retribuzione esigua rispetto al titolo di studio e rispetto a quello di altre professioni per cui era necessaria la laurea. Negli anni i bassi salari hanno contribuito a mantenere femminilizzata la professione e la femminilizzazione a sua volta ha mantenuto bassi i salari, togliendo sempre più prestigio sociale al lavoro docente.

Questo circolo vizioso non è tuttavia legato solo a un’esigenza di risparmio da parte dello Stato: l’istruzione deve restare femminilizzata anche perché la donna è il soggetto ottimale a garantire che la funzione ideologica della scuola nel mantenimento dell’ordine borghese venga assolta nel migliore dei modi. La donna, duplicemente dominata dall’autorità patriarcale oltre che dal modo di produzione capitalistico, avvezza all’accettazione dei rapporti di potere esistenti e lei stessa vittima di violenza simbolica, è infatti la categoria più idonea a esercitare in veste di insegnante la violenza pedagogica, proseguendo per via matrilineare la funzione disciplinatrice svolta dalla madre tramite l’educazione primaria. Le donne sono le più adatte a convincere col loro esempio ogni soggetto sociale a restare al posto che gli compete ‘per natura’, trasponendo la divisione dei ruoli così come la tradizione l’ha codificata. Inoltre, come la madre riproduce nella famiglia l’immagine di un femminile subordinato e deputato al lavoro di cura gratuito, così nella scuola l’insegnante, tramite il suo mediocre potere diviso tra dolce repressione e maternage, accredita il paradigma che fa del maschile il neutro, dunque l’universale, e riproduce l’immagine di un femminile vocato a donare, conforme e docile all’autorità, cinghia di trasmissione tra dominanti e dominati.

Il conformismo nei contenuti trasmessi dalle insegnanti, legato alla secolare subalternità culturale e alla mancanza di autonomia di molte donne, dipende anche dall’effetto di rassicurazione che esso provoca in un sesso allevato nella persuasione del proprio disvalore. Anche le studentesse, del resto, ottengono spesso migliori risultati dei coetanei grazie alla loro maggiore propensione ad adeguarsi alle regole e ai codici scolastici e al loro bisogno di ottenere approvazione e riconoscimento dagli insegnanti.

Gli alunni, interrogati in proposito, affermano che le docenti sono spesso più attente dei colleghi all’ordine e alla precisione, maggiormente rigide, fedeli ai programmi, meno inclini alle divagazioni; le insegnanti controllano con frequenza i quaderni e i materiali, lasciano minor spazio alla fantasia e all’autonomia degli alunni, soprattutto alle elementari. Esse, insomma, tendono a riprodurre lo stile materno e segretariale che da secoli è stato loro attribuito come qualità innata: modalità diverse da quelle maschili, dunque, non perché portatrici di un ordine del discorso differente, ma in quanto specchio delle caratteristiche che alle donne attribuisce l’ordine del discorso maschile.

Allo stesso retaggio psicologico e culturale sono legate altre peculiarità della modalità femminile di insegnamento: il rispetto pedissequo delle regole, il ricorrere dei temi legalitari e securitari apprezzati dalla retorica democratica e sempre più pervasivi a scuola, le ossessioni tassonomiche e docimologiche e, soprattutto, la profonda spoliticizzazione della scuola attuale sono frutto, oltre che del generale declino politico, sociale e culturale e dello spegnersi delle contro-culture, anche – dispiace ammetterlo – dell’approccio femminile all’insegnamento.
Analogamente, mi pare chiaro il rapporto esistente tra l’alta presenza femminile nella scuola e la scarsa conflittualità sindacale della categoria docente: anche al netto della generale disaffezione alla militanza sindacale e della passività della categoria nel suo complesso, si nota nella componente femminile una peculiare declinazione di questa tendenza nell’assolutizzazione della delega. Mi pare inoltre particolarmente diffusa tra la componente femminile l’attenzione per le minuzie anche in materia sindacale, invece che per le grandi questioni politico-sindacali che hanno investito la scuola negli ultimi decenni.
Anche in questo campo, dunque, le donne della scuola tendono ad offrire più dei loro colleghi un modello di ubbidienza all’autorità. Eppure l’ingresso femminile nell’istruzione superiore negli anni ’60 e ’70 nasceva anche come forma di rivolta ai ruoli assegnati dal destino di moglie e madre: «lo Stato italiano, favorendo la femminilizzazione dell’insegnamento primario e poi di quello secondario, ha implicitamente delegato la formazione dell’habitus scolastico a un gruppo dominato che usava la cultura per disconoscere il dominio cui soccombeva» (E. De Conciliis, “La riproduzione (del) femminile. Una riflessione socio-politica sul ruolo delle donne nella scuola italiana degli ultimi decenni” in Storia delle Donne S.l. (2012), p. 44). Ma disconoscere non equivale a combattere: la rivendicazione sessantottesca del diritto allo studio per tutti e il massiccio ingresso di donne, anche di estrazione piccolo borghese o proletaria, in una professione ‘culturale’ vissuta come ascesa sociale e istanza di liberazione, rifluisce per molte insegnanti nell’accettazione di un ruolo complice di quel potere patriarcale che avevano rifiutato. In questo modo, nota la De Conciliis, «l’ingresso nella scuola secondaria, vissuto dalla donna come fattore di orgogliosa emancipazione, è stato (…) anche uno dei più raffinati strumenti di difesa socio-culturale utilizzati dallo Stato a partire dagli anni Settanta» attraverso cui «si è cercato di realizzare la neutralizzazione politica della contestazione e della stessa emancipazione femminile».
L’illusorietà di questa liberazione in chiave di genere è dimostrata dal fatto che la predominante presenza femminile nella scuola non ha quasi mai proposto un ordine del discorso diverso da quello maschile, soprattutto in un paese come l’Italia in cui il femminismo radicale si è dissolto nel giro di un decennio. É vero che per qualche tempo le insegnanti formatesi negli anni del femminismo hanno rifiutato la cultura permeata dal logos maschile, cercando di creare strumenti di autoespressione e di critica ai sistemi formativi basati sulla mistificazione dei ruoli sessuali. La maggior parte delle insegnanti attualmente in servizio si sono tuttavia formate negli anni del riflusso e della progressiva spoliticizzazione della società e la trasmissione delle acquisizioni precedenti si è bruscamente interrotta; trova invece qualche terreno fertile quella pedagogia essenzialista della differenza che valorizza come specificità femminile proprio quelle caratteristiche attribuite alla donna come naturali che derivano dalla loro secolare emarginazione dalla vita pubblica e che continuano a determinarne l’inferiorizzazione. Un discorso sulla valorizzazione simbolica delle differenze che mette tuttavia un veto alla domanda sul come e sul perché le differenze sessuali si producono, sui rapporti di potere che implicano, sulla normatività in cui si posizionano e, va da sè, sulla possibilità di modificarla.
(articolo di Marcella Farioli, pubblicato il 14 feb 2016 da Nazione Indiana)

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